venerdì 1 agosto 2008

Giovani e centri commerciali

Premessa
La riflessione che segue è frutto della discussione fatta del documento di Nino Lisi su “Territorio, Lavoro ed Economia”, meglio definito come critica alla modernità. Quando discutiamo di questi temi e della critica al modello di sviluppo imperante che, in nome del profitto, passa sulla testa di tutti, non tenendo conto degli esseri umani e del loro habitat, viene subito da pensare perché non si riesca a far passare il messaggio di una vita qualitativamente migliore, perché tutto debba misurarsi con la crescita e con l’aumento del PIL, perché si afferma la cultura del “tutto e subito”, perché si afferma l’individualismo più sfrenato e viene meno il valore della solidarietà. Lo scontro, ovviamente, è tra due “culture” diverse e, la seconda sembra soccombere sotto la spinta del consumismo. Ma la “cultura” può essere scelta o bisogna necessariamente subirla, subendone inevitabilmente i modelli proposti? Forse è colpa, oltre che della Televisione “spazzatura”, anche dei centri commerciali… forse è il caso di auto-organizzarsi…

Giovani, la piazza è il centro commerciale
Cambiano repentinamente i luoghi di socializzazione degli adolescenti e sono gli imponenti centri commerciali, con i loro richiami consumistici, a polarizzare le masse in età evolutiva. Il dato emerge da un’inchiesta realizzata dall’Osservatorio sui Diritti dei Minori, presieduto dal sociologo Antonio Marziale, su Milano e provincia. I risultati evidenziano che il 73% dei giovani di età compresa fra i 14 e i 18 anni trascorre mediamente 3 ore al giorno all’interno dei vari centri commerciali, che diventano 6 ore per il 19%. Sono i punti di consumo alimentare, dotati spesso di televisori sintonizzati su canali musicali, quelli che risultano essere massicciamente fruiti dall’81% degli intervistati che ha dichiarato di gustare stuzzichini e aperitivi, seguiti a ruota dai punti di rivendita di abbigliamento ed accessori e di tecnologia. Solo l’8% frequenta qualche libreria.
“Dai dati emersi dall’inchiesta si evince nitidamente la difficoltà delle aree urbane, sempre più cementificate, a proporre momenti di aggregazione, infatti quello che Bauman definisce “sciame inquieto dei consumatori” trova nei centri commerciali il luogo ideale per fare gruppo intorno alla centralità dell’agire di consumo piuttosto che dell’agire culturale in senso lato, con pesanti ricadute nel rapporto con i genitori destinatari di richieste finanziarie sempre più insostenibili. La carenza di politiche sociali volte all’aggregazione giovanile rendono di fatto periferiche le città come luogo d’incontro, a danno anche delle prospettive d’impegno civico, perché i soggetti in età evolutiva costruiscono la loro visione del mondo in base alla loro esperienza di vita che in questo momento è quasi esclusivamente commerciale e consumistica e non lascia intravedere spiragli valoriali alternativi”. (Antonio Marziale 2007)


I nonluoghi
Il neologismo non luoghi definisce due concetti complementari ma assolutamente distinti: da una parte quegli spazi costruiti per un fine ben specifico (solitamente di trasporto, transito, commercio, tempo libero e svago) e dall’altra il rapporto che viene a crearsi fra gli individui e quegli stessi spazi. L’antropologo francese Marc Augè definisce non luoghi in contrapposizione ai luoghi antropologici, che sono tutti quegli spazi che hanno la prerogativa di essere identitari, relazionali e storici. I non luoghi sono spazi in cui milioni di individualità si incrociano senza entrare in relazione; sono prodotti della società della surmodernità, incapace di integrare in sé i luoghi storici confinandoli e banalizzandoli in posizioni limitate e circoscritte alla stregua di “curiosità” o di “oggetti interessanti”. I non luoghi sono incentrati solamente sul presente e sono altamente rappresentativi della nostra epoca, che è caratterizzata dalla precarietà assoluta (non solo nel campo lavorativo), dalla provvisorietà, dal transito e dal passaggio e da un individualismo solitario. Le persone transitano nei non luoghi ma nessuno vi abita.
Nonostante la estrema omogeneizzazione i non luoghi solitamente non sono vissuti con noia ma con una valenza positiva; gli utenti poco si preoccupano del fatto che i centri commerciali siano tutti uguali, godendo della sicurezza prodotta dal poter trovare in qualsiasi angolo del globo la propria catena di ristoranti preferita o la medesima disposizione degli spazi all’interno di un aeroporto. Di qui il paradosso del viaggiatore di passaggio smarrito in un paese sconosciuto che si ritrova solamente nell’anonimato delle autostrade, delle stazioni di servizio e degli altri non luoghi.
Le modalità d’uso dei non luoghi sono destinate all’utente medio, all’uomo generico, senza distinzioni. Non più persone ma entità anonime. “Una volta l’uomo aveva un’anima e un corpo, oggi ha bisogno anche di un passaporto, altrimenti non viene trattato da essere umano” (Stefen Zweig 1946): da quel tempo il processo di disindividualizzazione della persona è andato via via progredendo.
Anche il concetto di “viaggio” è stato pesantemente attaccato dalla surmodernità: grandi non luoghi posseggono ormai la medesima attratività turistica di alcuni monumenti storici. A proposito del più grande centro commerciale degli Stati Uniti d’America, il “Mall of America”, che richiama oltre 40 milioni di visitatori ogni anno (molti dei quali ci entrano nel corso di un giro turistico), scrive il critico Michael Crosbie nella rivista “Progressive Architecture”: “si va al Mall of America con la stessa religiosa devozione con cui i Cattolici vanno in Vaticano, i Musulmani alla Mecca, i giocatori d’azzardo a Las Vegas, i bambini a Dineyland”. Anche i centri storici delle città europee si stanno sempre più omologando, con i medesimi negozi o ristoranti (casomai cacciando librerie e caffè storici), il medesimo modo di vivere delle persone e addirittura gli stessi artisti di strada. L’identità storica delle città ridotta a stereotipo di richiamo turistico.
Se leggiamo la città, così come un palinsesto, essa stessa ci fornisce il senso della continuità storica, un documento, una testimonianza che dimostra e certifica la realtà alla quale apparteniamo. Tracce a partire dalle presenze archeologiche ai monumenti, dalle chiese alle piazze e ai cortili. È dunque il paesaggio, in contrapposizione al divenire dell’uomo, che permane e costituisce un fattore di continuità, di legame e di memoria tra le generazioni.
Possiamo notare come nelle nostre città si conservano alcune memorie del passato e vi sono ancora alcuni luoghi frequentati e condivisi dalla gente. Tuttavia «la dinamica della globalizzazione dei mercati e quindi l’omologazione della fruizione dei beni, dei gusti e degli stili di vita tende con forza crescente a sovrapporsi alla realtà locale corrodendone i fattori di caratterizzazione e limitando la fruizione condivisa dei luoghi di aggregazione ». (Giuliano Arrigoni, 2003).
Si fa, quindi, sempre più fatica a individuare nelle nostre città “luoghi centrali” riconoscibili, segni forti della comunità locale. « La città, svuotata dei suoi riferimenti, delle sue centralità, dei suoi presupposti originari, ha perso il senso di sé. I classici luoghi sociali dell’incontro della comunicazione e dello scambio, sono sostituiti da episodi di città virtuale, nonluoghi metropolitani di una città dematerializzata. » (E. Scandurra, 1997)
E se i luoghi classici della socialità urbana, come strade, piazze, mercati, sono sostituiti da nuovi episodi urbani, come ipermercati, tangenziali, autogrill, svincoli autostradali, aeroporti, terminali di bus, stazioni ferroviarie e metropolitane, motel, fast food, drive-in, disneyland e megadiscoteche, si arriva, dunque, ad una crisi della civiltà urbana, della socialità e della condizione umana. Il cittadino ha così ridotto il proprio senso di appartenenza al luogo e messo in crisi la sua identità, o quantomeno, ha un senso di appartenenza e di identificazione diverso rispetto a quello che lo legava alla piazza, al campanile, alla chiesa (F.C. Nigrelli, 2001).
« Quale paesaggio da vivere, condividere, usare, informare e trasformare con la fantasia e l’inventiva per adattarlo alle proprie esigenze, ai propri desideri, alla propria misura di bambini che crescono e da cui essere sollecitati e arricchiti? Quale paesaggio in cui gli adulti possono riconoscersi come appartenenti alla stessa comunità di cui condividere la storia e la cultura, compartecipi del suo divenire e del suo cambiamento? […] Sono venuti meno i luoghi e i tempi dell’incontro, del parlare, della memoria, della rielaborazione e produzione del pensiero ». (Giuliano Arrigoni, 2003)
Nonluoghi quindi sono ambienti privi di identità formale, di relazionalità e di storicità, spazi dell’anonimato in cui ci affolliamo sempre più frequentemente, soli ma assieme a tanti altri individui a noi simili. Il termine “nonluogo” è una litote, afferma una realtà negandone il suo contrario. Ne risulta allora un’espressione carica di significati di contrasto, di antitesi, di polemica.
« Se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi né identitario né relazionale né storico, definirà un nonluogo. […] la surmodernità è produttrice di nonluoghi antropologici […] È nell’anonimato del nonluogo che si prova in solitudine la comunanza dei destini umani » (Marc Augè, Nonluoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità, 1996/2005, Eleuthera).
In effetti non si tratta di definire un luogo ma di dare identità ad un vuoto per renderlo uno spazio. Molti invece non sanno definire lo “spazio”. Questo perchè? Perchè la loro attenzione è altrove, non all’uomo che lì potrebbe “vivere” anche solo pochi momenti della sua esistenza, ma all’oggetto, che è diventato scopo della progettazione e non elemento di una futura fruibilità.In parole estremamente semplici alcuni progettano un “luogo” e non tengono conto della sua vita futura.Come disegnare un vaso non tenendo conto che li dovrebbero essere messi dei fiori.
Anche Sanguineti parte proprio dai non luoghi, lo sconfinamento centro-periferia, l’inappartenenza dell’uomo ai luoghi della città ormai tutta privatizzata a costi esorbitanti, per attribuirvi la conseguente scomparsa dello spazio pubblico. Cita W. Benjamin e Adorno, è pessimista perché vede l’uomo precipitarsi verso l’autodistruzione e proprio per questo si adopera per favorire l’ottimismo, perché comunque non intende arrendersi e tenta di salvarsi/re.

Consumismo e modelli culturali
“Nessun centralismo fascista – aveva scritto Pasolini nel 1973 – è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi (…) Come si è potuta esercitare tale repressione? Attraverso due rivoluzioni, interne all’organizzazione borghese: la rivoluzione delle infrastrutture e la rivoluzione del sistema d’informazioni. Le strade, la motorizzazione ecc.. hanno ormai strettamente unito la periferia al centro. Ma la rivoluzione del sistema d’informazioni è stata ancora più radicale e decisiva. Per mezzo della televisione il centro ha assimilato a sé l’intero Paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un “uomo che consuma”, ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo (…)”
Se Pasolini scriveva questo nel 1973, utilizzando i pochi elementi dell’epoca, oggi la globalizzazione sta completando definitivamente questa “rivoluzione”. A questa dobbiamo il disimpegno dei nostri giovani che sono sempre più attratti da falsi miti e da falsi bisogni, da un’eccessivo individualismo che si arrocca sul presente e rifugge il sacrificio come precondizione per una prospettiva migliore. Anzi il futuro non gli interessa se non nel senso di consolidamento del “piacere” (presunto) presente.
Ci sono anche punti di vista diversi. E’ il caso di Simone Colafranceschi con il suo interessante libro: “Autogrill – Una storia italiana – Il Mulino 2007”. “L’evoluzione dei luoghi di consumo, non vi è dubbio, avviene nell’ambito di processi di mercato sovranazionali. Più complesso, però, è stabilire se davvero, come sostengono in molti, quel cammino si iscriva in una progressiva omologazione distruttrice del “genius loci” e se, dunque, la globalizzazione del mercato e dell’immaginario indotta dai consumi e dai media vada producendo l’oblio delle realtà locali, se non della realtà tout court. E’, forse, una questione di sguardi, più che di luoghi, e il presente di Autogrill può anche a torto, apparire un portato dell’americanizzazione dei consumi e finanche di quella che il sociologo americano G. Ritzer ha chiamato “McDonaldizzazione della società”: un processo in espansione che al ritmo di “efficienza, calcolabilità, prevedibilità e controllo”, finisce col procedere paradossalmente contro l’uomo e la sua libertà.
La distinzione tra individualità reale e pseudo-individualità, tra veri e falsi bisogni, nasce con il capitalismo stesso e induce spesso a leggere nelle soddisfazioni estetiche ed emozionali prodotte dalle esperienze di consumo, non un ampliamento delle libertà personali, ma il portato di una crescente manipolazione psicologica.
Colafranceschi le definisce “Contrapposizioni manichee tra il bene e il male, essere e apparire, luoghi e “non-luoghi” che non sempre rendono giustizia alla complessità del reale. Credo che, in questo senso, sessanta anni di autogrill e trenta di Autogrill ci parlino anche del carattere denso e stratificato del processo di costruzione di un luogo di consumo, dell’ibridazione, in esso, di modelli locali e sovranazionali, individuali e collettivi, e della dialettica esistente tra le strategie di marketing poste in essere dalle aziende e gli atteggiamenti degli individui che le interpretano e a loro volta le orientano”.
Ma anche volendo assumere in qualche modo il punto di vista di Colafranceschi che fa riferimento alla specificità italiana dell’esperienza autogrill/Autogrill, è indubbio che siamo di fronte a una modificazione profonda dei modelli culturali e dei valori che ci hanno guidato per anni e che, oggi, non può dirsi siano migliorati, anzi. Siamo a un vero e proprio regresso. Ed è indubbia la responsabilità della civiltà del consumo e dei suoi luoghi di elezione che incorporano e metabolizzano anche le forme tradizionali dell’espressione culturale più popolare: la musica ed il cinema. Imponendo il “gusto” attraverso un meccanismo distributivo mirato. Non si spiegherebbe altrimenti come alcuni film, peraltro pluripremiati, non entrano proprio nelle nostre sale cinematografiche.
A questo si aggiunge la crisi delle vecchie agenzie formative: famiglia, scuola, oratori. Ma gli stessi movimenti culturali, o gli stessi vecchi partiti non sono riusciti e non riescono a coinvolgere, a formare, a dare una visione altra della realtà e a costruire corretti modelli culturali. Ma potrebbero oggi reggere il confronto e contrastare la potenza dell’”ideologia del consumo”? E forse, queste agenzie non sono in crisi proprio per l’effetto indotto di questa “ideologia”?

Auto-organizzarsi/re altre forme culturali
Di fronte ad una tale lenta ma al tempo stessa profonda modificazione della nostra società c’è chi mette in campo gli spazi e i luoghi della “resistenza” e di un’altra cultura possibile. Un modo per auto-organizzarsi/re nuove forme culturali, che respinge con forza i modelli imposti, ma anche il costo esagerato della stessa fruizione culturale.
E’ il caso del Centro sociale “Laboratorio Millepiani” che, partendo da una vertenza con le autorità locali per usufruire gratuitamente di spazi pubblici e di contrasto alla privatizzazione di tutto il patrimonio pubblico, ha sviluppato una intensa attività di controcultura. L’ultima iniziativa nata è “radiossina – voci e suoni dalla città di sotto” http://stream.teknusi.org:8000/radiossina.m3u oppure: http://stream.teknusi.org:8000/radiossina
Vinta la battaglia per avere in disponibilità un luogo pubblico, i giovani del Laboratorio hanno iniziato subito a sviluppare le loro iniziative autonome: rassegne cinematografiche, presentazione di libri che non entrano nei vari circuiti ufficiali, incontri con intellettuali/studiosi su temi di attualità, mostre d’arte e fare arte, battaglie sociali per il reddito di cittadinanza, per la smilitarizzazione di Caserta, per la riqualificazione a verde del Macrico (area di 330.000 mq oggetto di possibili speculazioni edilizie). Ma anche momenti ludici di divertimento con il baretto autogestito, le serate di musica, quelle di teatro o cabaret, con artisti che non trovi normalmente nei soliti circuiti. Tutto a costi di pura autogestione.
Fare cultura, scegliere e non subirla. Questo è il motto del Laboratorio Millepiani.
Ovviamente ci sono anche altre esperienze che non fanno riferimento necessariamente alla rete dei centri sociali, evidentemente molto caratterizzati politicamente. Ci sono gruppi che fanno riferimento all’impegno sociale come l’ex Canapificio (migranti), alla solidarietà pura come La Tenda (di forte ispirazione religiosa), a gruppi di studio e di approfondimento come Epimeteo di Napoli.
E chissà quanti altri che non conosciamo e sono vere e proprie fucine di altra cultura che non intende subire quanto la società dei consumi propina quotidianamente attraverso televisione, cinema, e, adesso in particolare, attraverso i mega centri commerciali omnicomprensivi che divorano tutto.
P.S.
Una sola volta sono andato al cinema in una multisala/multiplex annessa ad un centro commerciale. Ho odiato vivamente la puzza di popcorn bruciato che assale le narici. Forse perché amavo molto le “gazzose” (in bottigliette di vetro) che bevevo avendo per cannuccia il “laccio di liquirizia”.
Enzo Falco

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