sabato 30 agosto 2008

Ci hanno tolto anche l’aria…

Aria, acqua, terra e fuoco sono i quattro elementi vitali per la nostra civiltà. Ne hanno parlato moltissimo i filosofi, gli studiosi, gli scienziati, ma noi, tutti i giorni li utilizziamo. Per respirare, per dissetarci, per mangiare, per cucinare…
Peccato che proprio questi quattro fondamentali elementi sono in crisi e con essi noi. Questa estate, per chi è rimasto a Caivano (io sono tra questi, visto che faccio da anni le vacanze a settembre), ha dimostrato drammaticamente questa crisi.
L’aria è stata davvero irrespirabile, visto il combinato disposto della puzza derivante da Eurocompost di Orta di Atella a confine con noi e dal CDR di Caivano (con buona pace di Berlusconi che dice di aver risolto la emergenza rifiuti, a quale prezzo?). L’acqua, bene comun e per eccellenza, che si vuole ancora tentare di privatizzare con le recenti decisioni del governo, ormai non si sa se è potabile o meno e quindi siamo costretti a comprare tonnellate di plstica che si riverbera anche sull’aumento indescrivibile dei rifiuti. La terra (nostra come canta Pino Daniele) non si sa quanto è inquinata e che tipi di frutti ci da. Dobbiamo continuare a mangiare i nostri prodotti e con quali tassi di inquinamento e con quanti prodotti chimici che, in una sorta di circuito vizioso, debbono utilizzare i nostri contadini per ottenere ancora raccolti redditizi? Il fuoco che ormai caratterizza la nostra vita non è solo quello dei fornelli che ci consentono di cucinare il cibo per la nostra alimentazione, ma i mille fuochi (quelli descritti straordinariamente da Roberto Saviano nel suo libro Gomorra e nel film di Del Giudice Biutiful cauntri) che libero nell’aria quantità industriali di diossina. La terra dei fuochi neri che comunicano solo morte.
E noi, supini a subire tutto questo.
Eppure al Comune di Caivano sono arrivati due centraline mobili che potrebbero girare in lungo e in largo per misurare il tasso d’inquinamento della nostra aria.
Ma i dati perché non vengono resi pubblici?
Eppure si stanno effettuando da tempo le analisi dell’acqua della nostra rete idrica.
Ma i dati perché non vengono resi pubblici?
Eppure sarebbe possibile assistere i nostri contadini per una conversione al biologico o anche all’uso della lotta integrata; si potrebbero fare analisi a campione sui prodotti della terra in accordo con l’Agenzia della sicurezza alimentare regionale.
Ma perché non si fa?
Eppure si potrebbe dare impulso al controllo territoriale contro i fuochi di morte con i moderni strumenti tecnologici, tipo il Marsec, o il sistema di telecamere che sono state istallate da tempo. Per un controllo funzionale alla sicurezza dei cittadini (troppe rapine) o agli sversamenti illegali non solo nelle campagne ma in tantissimi cassonetti delle nostre strade.
Ma perché non si fa?
E’ difficile rispondere a queste domande. Ma potrebbe essere anche facile. Vorrei lasciare ai nostri lettori le opportune considerazioni

Forse era meglio tenersi l’erba…

Meritoriamente l’Amministrazione di Caivano (almeno credo, visto che gli operai che facevano i lavori sono assolutamente anonimi) ha fatto tagliare l’erba alta che delimita la vecchia Strada Sannitica nord. Erbacce alte, brutte e sporche che offuscano i segnali stradali, la visuale degli automobilisti, s’incendia o viene incendiata dolosamente insieme a gomme e rifiuti abbandonati nei fossi di guardia, così come è successo spesso durante questa estate a Caivano e riduce il decoro complessivo della nostra città. Però, si c’è un però, siamo caduti “dalla padella nella brace”; tagliata l’erbaccia alta è emerso un tappeto di rifiuti fatto da bottiglie, cartacce e ogni altra sorta di rifiuti che automobilisti incivili buttano dai finestrini delle loro auto. Si sa che è complicato e fastidioso tenere il fazzolettino in macchina fino al cassonetto o al cestino per conferirlo correttamente. Si sa è difficile tenersi la bottiglia d’acqua in auto fino al primo contenitore utile. Tanto la strada di chi è… chi se ne frega…. La nostra auto è pulita, come la nostra casa, il nostro palazzo, il nostro cane. Tutto il resto non è bene pubblico.
Allora forse era megli tenersi l’erba alta. Almeno nascondeva la nostra cattiva coscienza. Quella di automobilisti con l’auto perfettamente tirata a lucido, dentro e fuori…
Con buona pace del bene comune.

martedì 12 agosto 2008

La crisi agricola e ambientale

E’ sotto gli occhi di tutti la grave crisi agricola che sta investendo le aziende agricole campane e i prodotti leader di questo comparto, a partire dalla mozzarella di bufala. Alla crisi che è produttiva, di commercializzazione e finanziario/bancaria fa da contraltare il fatto che i consumatori trovano sui mercati questi prodotti a costi esorbitanti. Alla fine sono penalizzate contemporaneamente le imprese agricole e gli acquirenti finali. Dove va a finire il “valore aggiunto”, cioè lo scarto tra i 5 centesimi pagati ai contadini per un mazzo d’insalata e i 2,5 euro che pagano i consumatori? Va a finire nell’infinita serie di passaggi che queste merci fanno per arrivare sulle nostre tavole. Il danno è doppio. Da un lato le imprese agricole, che hanno fatto investimenti notevoli per ammodernare le proprie aziende esponendole sul piano finanziario alle banche che oggi presentano il conto e attivano i procedimenti esecutivi di sequestro (vedi lo sciopero della fame che vede impegnati alcuni produttori agricoli, vedi gli scioperi e la disperazione dei tanti allevatori bufalini), devono svendere i loro prodotti frutto del loro sudore e di un’antica sapienza; dall’altro i consumatori vengono depauperati del loro potere d’acquisto attraverso l’abonorme aumento del costo che queste merci hanno sui banconi.
Siamo, come sempre, al paradosso che i meccanismi distorti di un mercato apparentemente libero che qualcuno vorrebbe ancora più libero, ma che libero non è, rende più poveri gli agricoltori e i consumatori (quelli a stipendio fisso che pagano le tasse e non riescono ad arrivare alla fine del mese) e arricchisce speculatori, commercianti disonesti, trasportatori (che inquinano), banche che sono agevolati direttamente o indirettamente dal fisco. Siamo alla metafora del Robin Wood all’incontrario, si toglie ai più poveri e si da ai più ricchi (che pagano poco e non pagono affatto le tasse).
Naturalmente le imprese agricole campane (in particolare la fascia dei Comuni a nord di Napoli e a sud di Caserta, dal Nolano al Litorale Domitio passando per Caivano) pagano anche il conto della grave crisi ambientale e dei rifiuti della nostra provincia che stenta ancora ad essere risolta. Questa grave crisi che riguarda quasi il 16% della ricchezza prodotta dovrebbe essere affrontata con una determinazione pari a quella del dopoguerra mentre assistiamo a politiche da pannicelli caldi assolutamente inadeguati. Anche da parte di Sindaci, pronti a riempirsi la bocca del valore dei prodotti tipici e non fanno mai niente per l'agricoltura e per gli agricoltori. E invece potrebbero individuare, all'interno dei mercati, uno spazio - "il mercatino della freschezza - prodotti agricoli locali" da destinare a titolo gratuito ai condatini del luogo, oltre a sviluppare politiche si sostegno alle coltivazioni tipiche quali la "vite maritata ai pioppi".
Ma si può fare anche altro....
Al di là delle discussioni sui massimi sistemi che presupporrebbero una politica “forte” e fortemente impegnata, una piccola concreta idea può venire dai GAS (Gruppi di acquisto solidali). Ci sono gruppi di cittadini/consumatori che acquistano direttamente presso le aziende agricole, avendole visitate e quindi conoscendo in loco i prodotti, generalmente autoctoni e tipici, ottimizzando la domanda e l’offerta e calmierando i prezzi. Ce ne sono diversi che funzionano davvero bene, in provincia di Caserta, ma anche di Napoli. In questo modo abbiamo la quadratura del cerchio ed si attiva un processo virtuoso.
Gli agricoltori vendono ad un prezzo equo ma remunerativo; i consumatori acquistano a costi equi e hanno prodotti freschi che si sa da dove vengono e non hanno fatto il giro del mondo per arrivare sulle proprie tavole; non si da spazio agli speculatori; non si inquina l’aria con gli scarichi dei camion che vanno su e giù per l’Italia a portare i peperoni prodotti a Francolise in Piemonte per riportarli come peperoni tipici di Carmagnola sui banchi del Centro commerciale di turno. In questo modo non aumenta il PIL (prodotto interno lordo), ma siamo tutti più felici.
Questo, ancora una volta, fa riferimento ad un diverso modello di sviluppo e ad una diversa costruzione della società.
Chi ha visto la trasmissione televisiva “Report” qualche domenica fa ha capito che è il momento di scegliere tra chi persegue un modello che arrichisce i pochi a danno dei molti e, pur di aumentare il PIL è disposto a passare sulla testa degli esseri umani, rovinando in modo irreversibile l’ambiente, e chi vuole difendere gli interessi dei tanti e della terra che ci è stata lasciata in prestito dai nostri padri e che abbiamo il dovere di lasciare ai nostri figli.
Enzo falco

Il rito tribale

Ho sentito spesso parlar male dei riti tribali di alcuni gruppi etnici africani o di civiltà considerate, a torto, “arretrate” dove si continuano a fare sacrifici umani che rispondono a tradizioni antichissime. E nessuno si indigna, se non per poco, dei nostri (delle civiltà cosiddette avanzate) riti che sono ben più gravi dei riti “tribali”. Come definire se non in questo modo le innumerevoli morti sul lavoro che hanno da sempre costellato la nostra vita, il più delle volte nel silenzio più assoluto degli stessi media. C’è voluto il richiamo del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, per accendere i riflettori su un dramma che non può più essere tollerato, che non attiene più ormai al novero delle “tragiche fatalità”, ma che risponde esattamente alla tragica conseguenza del fatto che un essere umano, un lavoratore, non è più un valore in sé: non è carne e ossa, né mente e cuore, ma un “numero”, funzionale al raggiungimento di altri fini che non sono l’essere umano stesso.
Quando torneremo a capire che nessuna crescita economica, nessun aumento del PIL, nessuna globalizzazione, nessuna apparente modernità potrà restituirci (si anche a noi tutti) e potrà restituire a quei bambini il proprio papà? Nessuno potrà colmare le emozioni, gli affetti, l’amore che quel papà, marito, lavoratore, essere umano avrebbe potuto ancora trasmettere.
Certo ci sono leggi a tutela dei lavoratori, sono state inasprite recentemente le sanzioni, con il roboante dissenso della Confindustria, mancano spesso i controlli. Manca il personale e qualcuno vuole dimezzare i lavoratori del pubblico impiego. E’ la stessa logica di chi diminuisce le manutenzioni (vi ricordate gli innumerevoli incidenti ferroviari?), diminuisce l’attenzione sul lavoro aumentando, sul bisogno di guadagnare qualcosa in più, surrettiziamente le ore di lavoro. E chiede ancora di detassare gli straordinari e non invece restituire il maltolto che in questi anni hanno impoverito i salari e gli stipendi a fronte di un aumento iperbolico dei profitti o delle speculazioni finanziarie (ancora oggi tassate al 12%).
Tutto questo sempre e solo in nome della “competizione”, della “crescita”, dell’unico valore oggi imperante, quello del “dio denaro”, quello che riempie le tasche dei pochi a danno dei tanti.
E che lascia tracce di sangue dietro la sua scia…
Rispetto a questa impostazione gli esseri umani cosa vuoi che siano? E che importa se si continua a distruggere il nostro ambiente naturale? Sono solo “pietre d’inciampo”, come dice don Ciotti. Ma le “pietre d’inciampo” che sono considerati “fastidiosi” ostacoli verso lo sviluppo, potranno diventare uno sgambetto rovinoso e decisivo per una inversione di tendenza.
C’è bisogno di nuovo umanesimo che rimetta al centro non la ricchezza in denaro che logora e distrugge sentimenti, valori, ma la ricchezza dell’essere umano e del suo habitat, dove territorio, lavoro ed economia siano in equilibrio armonico.
C’è bisogno di un intervento più specifico del mondo della cultura che deve farci comprendere meglio come uscire dalla sempre più evidente crisi di questa ormai presunta “modernità”. E siamo perfettamente convinti che per porre fine a questi scempi, non bastano da sole le leggi. Infatti le norme che pure sono state prodotte, che è stato importante produrre, non sono valse a gran che. La soluzione non va trovata solo sul piano del diritto. Va riscoperto il senso delle cose e della vita.
Scriveva il prof. Mario Alcaro nel 2006: “…nella tarda modernità, con la crisi dell’idea di progresso e del mito delle magnifiche sorti e progressive dello sviluppo economico e tecnologico, si comincia ad intravedere che la vita umana, privata del suo radicamento nel contesto naturale, perde ogni giustificazione. Non solo la vita, a dire il vero, ma anche la morte”
I riti tribali sono una scelta legata ad una tradizione che può non essere condivisa; la morte di un lavoratore è una “scelta” fatta dal “mercato” e dalla necessità (di chi?) di produrre sempre di più a costi sempre più bassi.
Ma quanto “costa” in termini sociali le tante vite perse sul lavoro? E quanto quelle sulla strada (altro tributo alla presunta “modernità)? Il battage pubblicitario dei media e del governo Berlusconi, si sa, va in ben altra direzione; la sicurezza è prendersela con i più deboli, con i più poveri, con, per dirla con Frantz Fanon, “i dannati della terra”.
Enzo Falco

lunedì 11 agosto 2008

Nasce un Gas ad Aversa

«La Tavola rotonda» conta di raggiungere a breve le 50 famiglie associate
Aversa. Sono già venticinque ma contano di arrivare a cinquanta inpochi giorni. Hanno creato un gruppo di acquisto che si chiama «LaTavola rotonda» e che persegue un obiettivo ambizioso, e nello stessotempo ambito da tutti coloro che ogni giorno si trovano, loro malgrado,a fare i conti con gli aumenti di prezzo, legati all’euro: acquistareprodotti biologici e biodegradabili direttamente alla fonte, ovvero dachi li produce. Questo per abbattere i costi e risparmiare, certo, ma anche pertutelare «l’etica dell’acquisto» e privilegiare quelle produzioni chetutelano la salute. È il primo comitato del genere nato ad Aversa ma neesistono già due esempi a Napoli, e hanno collezionato risultatiimportanti in termini di risparmio. Gli aversani che compongono «La Tavola rotonda» appartengono a diverseestrazioni sociali: insegnanti, professionisti e casalinghe. Tutti uniti da uno slogan: risparmiare e tutelare la natura, acquistando prodotti che la rispettino. Il promotore dell’iniziativa è Nicola Ciccarelli che guida il circoloaversano di Legambiente: «Oggi - dice Ciccarelli, in parte sorpreso dalrilievo che la sua iniziativa ha ottenuto - le industrie puntano amassificare la produzione, senza preoccuparsi della genuinità e dellaqualità di ciò che quotidianamente producono. L’esempio classico èquello della mela che oggi, prima di arrivare sulle nostre tavole,subisce in media trenta trattamenti chimici. Poi c’è il risvoltoeconomico della medaglia: questo tipo di produzione aumenta i costi chepoi si scaricano sulle tasche dei consumatori. E acquistaredirettamente dai produttori, dopo aver verificato la validità eticadella loro offerta, significa, al contrario, sfuggire a questi costi,risparmiando tantissimo». «Acquisteremo - rivela ancora il responsabile del comitato -detersivi biodegradabili, per l’esattezza un detergente fluido, da unartigiano di Ancona e risparmieremo, così, il 50 per cento di quelloche avremmo speso, acquistando detersivi in un supermercato. Ma andremoanche oltre: siamo in contatto con un allevatore di suini di Siena che,attraverso le videocamere, ci consentirà di ammirare i propri animali,allevati in modo sano, e di poterli acquistare con un risparmioquantificato intorno al 70 per cento. Lo stesso vale per un particolaretipo di formaggio». Ma anche la pasta potrà essere acquistata a prezzi contenuti, bussandodirettamente alla porta di qualche produttore: «Uno - concludeCiccarelli - lo abbiamo già individuato: produce pasta usando granibiologici ed è disposto a venderla direttamente a noi. Anche in questocaso, quindi, parliamo di prodotti assolutamente sani ed etici».
[Fonte: il Mattino]

Gas, facilitazioni dalla legge finanziaria 2008

La legge finanziaria 2008 contiene i commi da 266 a 268 dedicati ai GAS. Qui sotto trovate i commenti "tecnici" di due giornali e quelli del gruppo di lavoro dei GAS sugli aspetti fiscali. * Italia Oggi - Speciale Guida alla Finanziaria 2008 (in edicola dal 16.1.08) - pag. 176 - Commento ai cc. 266-268 della Finanziaria 2008"CC. 266-268:Istituita la figura dei G.a.s., per i quali vengono introdotte disposizioni fiscali di favore.Sono definiti tali le associazioni non lucrative costituite per acquistare e distribuire beni agli aderenti, senza alcun ricarico, con finalità etiche, di solidarietà sociale e di sosenibilità ambientale.Le attività svolte da questi soggetti nei confronti dei propri aderenti non si considerano commerciali né agli effetti dell'iva né agli effetti dell'imposizione diretta (fermo il rispetto delle condizioni di cui all'art. 4, 7°c. dpr 633/72 e 148 TUIR: democrazia interna, vincoli patrimoniali di non distribuzione utili, ecc.)."* Il Sole 24 Ore - Documenti - La Manovra Finanziaria (24.12.07) - pag. 55 - Commento ai cc. 266-268 della Finanziaria 2008:"CC. 266-268:Istituiti i g.a.s.,Le loro attività rivolte agli aderenti non sono commerciali ai fini Iva e Imposte dirette."* * * * * * * * * * *COMMENTI AI COMMI 266-268 DELLA FINANZIARIA 20081) La "nuova" norma ha, di fatto, natura "interpretativa" e non innovativa. Per come è stato argomentato l'intervento del legislatore (cfr. relazione accompagnatoria all'emendamento, predisposta dall'ufficio giuridico della senatrice De Petris: unica ratio legis di fatto rinvenibile sul punto), i cc. 266 e 267 regolamentano - una volta per tutte - l'attività di chi é già costituito (o si costituirà) in associazione/ente-soggetto associativo/ENC/ecc. (che deve rispettare le condizioni già note di cui all'art. 4/iva e art. 148/imposte redditi, ovvero con statuto contenente determinati requisiti, registrato c/o Ag. Entrate, ecc.) come già succedeva prima del 31.12.07.Nota: già prima della Finanziaria 2008 le associazioni GAS richiedevano il solo codice fiscale e non aprivano P. Iva, proprio perché già si riteneva, a titolo interpretativo, che la loro attività non rilevasse a fini "commerciali".2) I gruppi informali - che agivano e agiscono come "gruppi di persone/amici/parenti non costituite in associazione" - gestite con il criterio della intestazione dei singoli acquisti ai codici fiscali delle diverse persone fisiche al solo fine di consumo personale - non sono da considerarsi "enti/soggetti associativi" ai sensi dei cc. 266 e 267 dell'art. 1 della Finanziaria 2008 (non hanno mai redatto un atto costitutivo - in quanto informali - non hanno uno statuto, né l'hanno mai registrato - non hanno obblighi - operano senza codice fiscale "di un ente terzo" e senza P. Iva) e quindi non sono ente/soggetto associativo (ai fini fiscali).3) Il testo sostanzialmente dice che "la successiva distribuzione di beni (precedentemente acquistati dal Gas pagando regolarmente Iva ai fornitori, ove dovuta) ai soli aderenti al Gas, effettuata senza ricarico, non é considerata "attività commerciale" rilevante ai fini Iva/II.DD (se sono rispettate le condizioni di cui all'art. 4/Iva e 148/TUIR)".Quindi:Chi si costituisce in associazione/ente associativo (la nozione é rimasta indistinta per farci star dentro le più svariate forme giuridiche - Ass. culturali / APS/ ecc.) sa ora (definitivamente) cosa fare, senza più dubbi sulla relativa formalizzazione e gli obblighi relativi (che - peraltro - in via interpretativa - ritenevamo già prima sussistere).Nulla cambia per chi gestisce a livello informale e "privato" un'attività di acquisto solidale con altre persone/parenti/amici (e non é costituito in associazione/ente associativo).Il gruppo informale é e rimane certamente, a livello etico, comunque un "Gas": per tutto quello che rappresenta, per le persone che gli danno vita, per la carta dei valori in cui chi ne fa parte si riconosce, per l'attività di rete in Retegas ... ma purtroppo il gruppo informale soffre legislativamente - da sempre - tutti i limiti della propria "invisibilità esterna": non può avere (e non lo poteva avere neanche prima!) "riconoscimento" fiscale, non può stipulare contratti, non può interloquire o essere riconosciuto (dalla maggior parte degli) enti locali, ecc. ecc.Infine, avere un riconoscimento giuridico dei GAS può facilitare la strada ad un soggetto istituzionale (in particolare un Ente Locale) che voglia intraprendere progetti, iniziative di promozione o di sostegno per questa forma di acquisto consapevole.

Organizziamo un GAS (gruppo di acquisto solidale)

Cosa sono i Gruppi di Acquisto Solidale
Una breve autopresentazione dei G.A.S.
Cosa sono i Gruppi di Acquisto Solidale (G.A.S.)?
Un gruppo d’acquisto e' formato da un insieme di persone che decidono di incontrarsi per acquistare all’ingrosso prodotti alimentari o di uso comune, da ridistribuire tra loro.
Si ma... perché si chiama solidale?
Un gruppo d’acquisto diventa solidale nel momento in cui decide di utilizzare il concetto di solidarieta' come criterio guida nella scelta dei prodotti. Solidarieta' che parte dai membri del gruppo e si estende ai piccoli produttori che forniscono i prodotti, al rispetto dell’ambiente, ai popoli del sud del mondo e a coloro che - a causa della ingiusta ripartizione delle ricchezze - subiscono le conseguenze inique di questo modello di sviluppo.
Perché nasce una G.A.S.?
Ogni GAS nasce per motivazioni proprie, spesso però alla base vi è una critica profonda verso il modello di consumo e di economia globale ora imperante, insieme alla ricerca di una alternativa praticabile da subito. Il gruppo aiuta a non sentirsi soli nella propria critica al consumismo, a scambiarsi esperienze ed appoggio, a verificare le proprie scelte.
Come nasce un G.A.S.?
Uno comincia a parlare dell’idea degli acquisti collettivi nel proprio giro di amici, e se trova altri interessati si forma il gruppo. Insieme ci si occupa di ricercare nella zona piccoli produttori rispettosi dell’uomo e dell’ambiente, di raccogliere gli ordini tra chi aderisce, di acquistare i prodotti e distribuirli... e si parte!
Criteri solidali per la scelta dei prodottiI gruppi cercano prodotti provenienti da piccoli produttori locali per avere la possibilita' di conoscerli direttamente e per ridurre l’inquinamento e lo spreco di energia derivanti dal trasporto. Inoltre si cercano prodotti biologici o ecologici che siano stati realizzati rispettando le condizioni di lavoro.
È complicato?
È molto più deprimente prendere la macchina per chiudersi, di sabato, in un centro commerciale. Le riunioni e il ritiro della spesa sono un´occasione di incontro e condivisione, e spesso sono accompagnate da una torta e un bicchiere di vino. Partecipare ad un GAS può essere inoltre formativo: alcuni gruppi, infatti, attribuiscono molta importanza agli aspetti culturali e conoscitivi ed organizzano incontri sul consumo critico, sull´autoproduzione di alcuni prodotti (detersivi, pane, ecc.), sui rapporti nord-sud del mondo, ecc.
Una reteI gruppi di acquisto sono collegati fra di loro in una rete che serve ad aiutarli e a diffondere questa esperienza attraverso lo scambio di informazioni. Attualmente in Italia sono censiti un centinaio di GAS.

Storia dei GAS
Un breve racconto storico sulla formazione dei Gruppi di Acquisto Solidali La storia dei gruppi d'acquisto solidali in Italia inizia nel 1994 con la nascita del primo gruppo a Fidenza, quindi a Reggio Emilia e in seguito in diverse altre località. Nello stesso periodo si diffonde in Italia l'operazione "Bilanci di Giustizia", lanciata a fine '93, che chiede alle famiglie di verificare sul bilancio famigliare l'incidenza delle loro modifiche allo stile di vita.Dove possibile, le famiglie si ritrovano in gruppo nel quale affrontano temi di interesse comune e si organizzano per praticare comportamenti equi nella loro zona. Spesso i gruppi dei Bilanci di Giustizia praticano gli acquisti collettivi tra le loro attività.Nel 1996 viene pubblicata dal Centro Nuovo Modello di Sviluppo la "Guida al Consumo Critico", con informazioni sul comportamento delle imprese più grandi per guidare la scelta del consumatore; l'ampio elenco di informazioni documentate sulle multinazionali accelera il senso di disagio verso il sistema economico e la ricerca di alternative.Nel 1997 nasce la rete dei gruppi d'acquisto, allo scopo di collegare tra loro i diversi gruppi, scambiare informazioni sui prodotti e sui produttori, e diffondere l'idea dei gruppi d'acquisto.

Fonte: http://www.retegas.org/

venerdì 1 agosto 2008

Giovani e centri commerciali

Premessa
La riflessione che segue è frutto della discussione fatta del documento di Nino Lisi su “Territorio, Lavoro ed Economia”, meglio definito come critica alla modernità. Quando discutiamo di questi temi e della critica al modello di sviluppo imperante che, in nome del profitto, passa sulla testa di tutti, non tenendo conto degli esseri umani e del loro habitat, viene subito da pensare perché non si riesca a far passare il messaggio di una vita qualitativamente migliore, perché tutto debba misurarsi con la crescita e con l’aumento del PIL, perché si afferma la cultura del “tutto e subito”, perché si afferma l’individualismo più sfrenato e viene meno il valore della solidarietà. Lo scontro, ovviamente, è tra due “culture” diverse e, la seconda sembra soccombere sotto la spinta del consumismo. Ma la “cultura” può essere scelta o bisogna necessariamente subirla, subendone inevitabilmente i modelli proposti? Forse è colpa, oltre che della Televisione “spazzatura”, anche dei centri commerciali… forse è il caso di auto-organizzarsi…

Giovani, la piazza è il centro commerciale
Cambiano repentinamente i luoghi di socializzazione degli adolescenti e sono gli imponenti centri commerciali, con i loro richiami consumistici, a polarizzare le masse in età evolutiva. Il dato emerge da un’inchiesta realizzata dall’Osservatorio sui Diritti dei Minori, presieduto dal sociologo Antonio Marziale, su Milano e provincia. I risultati evidenziano che il 73% dei giovani di età compresa fra i 14 e i 18 anni trascorre mediamente 3 ore al giorno all’interno dei vari centri commerciali, che diventano 6 ore per il 19%. Sono i punti di consumo alimentare, dotati spesso di televisori sintonizzati su canali musicali, quelli che risultano essere massicciamente fruiti dall’81% degli intervistati che ha dichiarato di gustare stuzzichini e aperitivi, seguiti a ruota dai punti di rivendita di abbigliamento ed accessori e di tecnologia. Solo l’8% frequenta qualche libreria.
“Dai dati emersi dall’inchiesta si evince nitidamente la difficoltà delle aree urbane, sempre più cementificate, a proporre momenti di aggregazione, infatti quello che Bauman definisce “sciame inquieto dei consumatori” trova nei centri commerciali il luogo ideale per fare gruppo intorno alla centralità dell’agire di consumo piuttosto che dell’agire culturale in senso lato, con pesanti ricadute nel rapporto con i genitori destinatari di richieste finanziarie sempre più insostenibili. La carenza di politiche sociali volte all’aggregazione giovanile rendono di fatto periferiche le città come luogo d’incontro, a danno anche delle prospettive d’impegno civico, perché i soggetti in età evolutiva costruiscono la loro visione del mondo in base alla loro esperienza di vita che in questo momento è quasi esclusivamente commerciale e consumistica e non lascia intravedere spiragli valoriali alternativi”. (Antonio Marziale 2007)


I nonluoghi
Il neologismo non luoghi definisce due concetti complementari ma assolutamente distinti: da una parte quegli spazi costruiti per un fine ben specifico (solitamente di trasporto, transito, commercio, tempo libero e svago) e dall’altra il rapporto che viene a crearsi fra gli individui e quegli stessi spazi. L’antropologo francese Marc Augè definisce non luoghi in contrapposizione ai luoghi antropologici, che sono tutti quegli spazi che hanno la prerogativa di essere identitari, relazionali e storici. I non luoghi sono spazi in cui milioni di individualità si incrociano senza entrare in relazione; sono prodotti della società della surmodernità, incapace di integrare in sé i luoghi storici confinandoli e banalizzandoli in posizioni limitate e circoscritte alla stregua di “curiosità” o di “oggetti interessanti”. I non luoghi sono incentrati solamente sul presente e sono altamente rappresentativi della nostra epoca, che è caratterizzata dalla precarietà assoluta (non solo nel campo lavorativo), dalla provvisorietà, dal transito e dal passaggio e da un individualismo solitario. Le persone transitano nei non luoghi ma nessuno vi abita.
Nonostante la estrema omogeneizzazione i non luoghi solitamente non sono vissuti con noia ma con una valenza positiva; gli utenti poco si preoccupano del fatto che i centri commerciali siano tutti uguali, godendo della sicurezza prodotta dal poter trovare in qualsiasi angolo del globo la propria catena di ristoranti preferita o la medesima disposizione degli spazi all’interno di un aeroporto. Di qui il paradosso del viaggiatore di passaggio smarrito in un paese sconosciuto che si ritrova solamente nell’anonimato delle autostrade, delle stazioni di servizio e degli altri non luoghi.
Le modalità d’uso dei non luoghi sono destinate all’utente medio, all’uomo generico, senza distinzioni. Non più persone ma entità anonime. “Una volta l’uomo aveva un’anima e un corpo, oggi ha bisogno anche di un passaporto, altrimenti non viene trattato da essere umano” (Stefen Zweig 1946): da quel tempo il processo di disindividualizzazione della persona è andato via via progredendo.
Anche il concetto di “viaggio” è stato pesantemente attaccato dalla surmodernità: grandi non luoghi posseggono ormai la medesima attratività turistica di alcuni monumenti storici. A proposito del più grande centro commerciale degli Stati Uniti d’America, il “Mall of America”, che richiama oltre 40 milioni di visitatori ogni anno (molti dei quali ci entrano nel corso di un giro turistico), scrive il critico Michael Crosbie nella rivista “Progressive Architecture”: “si va al Mall of America con la stessa religiosa devozione con cui i Cattolici vanno in Vaticano, i Musulmani alla Mecca, i giocatori d’azzardo a Las Vegas, i bambini a Dineyland”. Anche i centri storici delle città europee si stanno sempre più omologando, con i medesimi negozi o ristoranti (casomai cacciando librerie e caffè storici), il medesimo modo di vivere delle persone e addirittura gli stessi artisti di strada. L’identità storica delle città ridotta a stereotipo di richiamo turistico.
Se leggiamo la città, così come un palinsesto, essa stessa ci fornisce il senso della continuità storica, un documento, una testimonianza che dimostra e certifica la realtà alla quale apparteniamo. Tracce a partire dalle presenze archeologiche ai monumenti, dalle chiese alle piazze e ai cortili. È dunque il paesaggio, in contrapposizione al divenire dell’uomo, che permane e costituisce un fattore di continuità, di legame e di memoria tra le generazioni.
Possiamo notare come nelle nostre città si conservano alcune memorie del passato e vi sono ancora alcuni luoghi frequentati e condivisi dalla gente. Tuttavia «la dinamica della globalizzazione dei mercati e quindi l’omologazione della fruizione dei beni, dei gusti e degli stili di vita tende con forza crescente a sovrapporsi alla realtà locale corrodendone i fattori di caratterizzazione e limitando la fruizione condivisa dei luoghi di aggregazione ». (Giuliano Arrigoni, 2003).
Si fa, quindi, sempre più fatica a individuare nelle nostre città “luoghi centrali” riconoscibili, segni forti della comunità locale. « La città, svuotata dei suoi riferimenti, delle sue centralità, dei suoi presupposti originari, ha perso il senso di sé. I classici luoghi sociali dell’incontro della comunicazione e dello scambio, sono sostituiti da episodi di città virtuale, nonluoghi metropolitani di una città dematerializzata. » (E. Scandurra, 1997)
E se i luoghi classici della socialità urbana, come strade, piazze, mercati, sono sostituiti da nuovi episodi urbani, come ipermercati, tangenziali, autogrill, svincoli autostradali, aeroporti, terminali di bus, stazioni ferroviarie e metropolitane, motel, fast food, drive-in, disneyland e megadiscoteche, si arriva, dunque, ad una crisi della civiltà urbana, della socialità e della condizione umana. Il cittadino ha così ridotto il proprio senso di appartenenza al luogo e messo in crisi la sua identità, o quantomeno, ha un senso di appartenenza e di identificazione diverso rispetto a quello che lo legava alla piazza, al campanile, alla chiesa (F.C. Nigrelli, 2001).
« Quale paesaggio da vivere, condividere, usare, informare e trasformare con la fantasia e l’inventiva per adattarlo alle proprie esigenze, ai propri desideri, alla propria misura di bambini che crescono e da cui essere sollecitati e arricchiti? Quale paesaggio in cui gli adulti possono riconoscersi come appartenenti alla stessa comunità di cui condividere la storia e la cultura, compartecipi del suo divenire e del suo cambiamento? […] Sono venuti meno i luoghi e i tempi dell’incontro, del parlare, della memoria, della rielaborazione e produzione del pensiero ». (Giuliano Arrigoni, 2003)
Nonluoghi quindi sono ambienti privi di identità formale, di relazionalità e di storicità, spazi dell’anonimato in cui ci affolliamo sempre più frequentemente, soli ma assieme a tanti altri individui a noi simili. Il termine “nonluogo” è una litote, afferma una realtà negandone il suo contrario. Ne risulta allora un’espressione carica di significati di contrasto, di antitesi, di polemica.
« Se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi né identitario né relazionale né storico, definirà un nonluogo. […] la surmodernità è produttrice di nonluoghi antropologici […] È nell’anonimato del nonluogo che si prova in solitudine la comunanza dei destini umani » (Marc Augè, Nonluoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità, 1996/2005, Eleuthera).
In effetti non si tratta di definire un luogo ma di dare identità ad un vuoto per renderlo uno spazio. Molti invece non sanno definire lo “spazio”. Questo perchè? Perchè la loro attenzione è altrove, non all’uomo che lì potrebbe “vivere” anche solo pochi momenti della sua esistenza, ma all’oggetto, che è diventato scopo della progettazione e non elemento di una futura fruibilità.In parole estremamente semplici alcuni progettano un “luogo” e non tengono conto della sua vita futura.Come disegnare un vaso non tenendo conto che li dovrebbero essere messi dei fiori.
Anche Sanguineti parte proprio dai non luoghi, lo sconfinamento centro-periferia, l’inappartenenza dell’uomo ai luoghi della città ormai tutta privatizzata a costi esorbitanti, per attribuirvi la conseguente scomparsa dello spazio pubblico. Cita W. Benjamin e Adorno, è pessimista perché vede l’uomo precipitarsi verso l’autodistruzione e proprio per questo si adopera per favorire l’ottimismo, perché comunque non intende arrendersi e tenta di salvarsi/re.

Consumismo e modelli culturali
“Nessun centralismo fascista – aveva scritto Pasolini nel 1973 – è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi (…) Come si è potuta esercitare tale repressione? Attraverso due rivoluzioni, interne all’organizzazione borghese: la rivoluzione delle infrastrutture e la rivoluzione del sistema d’informazioni. Le strade, la motorizzazione ecc.. hanno ormai strettamente unito la periferia al centro. Ma la rivoluzione del sistema d’informazioni è stata ancora più radicale e decisiva. Per mezzo della televisione il centro ha assimilato a sé l’intero Paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un “uomo che consuma”, ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo (…)”
Se Pasolini scriveva questo nel 1973, utilizzando i pochi elementi dell’epoca, oggi la globalizzazione sta completando definitivamente questa “rivoluzione”. A questa dobbiamo il disimpegno dei nostri giovani che sono sempre più attratti da falsi miti e da falsi bisogni, da un’eccessivo individualismo che si arrocca sul presente e rifugge il sacrificio come precondizione per una prospettiva migliore. Anzi il futuro non gli interessa se non nel senso di consolidamento del “piacere” (presunto) presente.
Ci sono anche punti di vista diversi. E’ il caso di Simone Colafranceschi con il suo interessante libro: “Autogrill – Una storia italiana – Il Mulino 2007”. “L’evoluzione dei luoghi di consumo, non vi è dubbio, avviene nell’ambito di processi di mercato sovranazionali. Più complesso, però, è stabilire se davvero, come sostengono in molti, quel cammino si iscriva in una progressiva omologazione distruttrice del “genius loci” e se, dunque, la globalizzazione del mercato e dell’immaginario indotta dai consumi e dai media vada producendo l’oblio delle realtà locali, se non della realtà tout court. E’, forse, una questione di sguardi, più che di luoghi, e il presente di Autogrill può anche a torto, apparire un portato dell’americanizzazione dei consumi e finanche di quella che il sociologo americano G. Ritzer ha chiamato “McDonaldizzazione della società”: un processo in espansione che al ritmo di “efficienza, calcolabilità, prevedibilità e controllo”, finisce col procedere paradossalmente contro l’uomo e la sua libertà.
La distinzione tra individualità reale e pseudo-individualità, tra veri e falsi bisogni, nasce con il capitalismo stesso e induce spesso a leggere nelle soddisfazioni estetiche ed emozionali prodotte dalle esperienze di consumo, non un ampliamento delle libertà personali, ma il portato di una crescente manipolazione psicologica.
Colafranceschi le definisce “Contrapposizioni manichee tra il bene e il male, essere e apparire, luoghi e “non-luoghi” che non sempre rendono giustizia alla complessità del reale. Credo che, in questo senso, sessanta anni di autogrill e trenta di Autogrill ci parlino anche del carattere denso e stratificato del processo di costruzione di un luogo di consumo, dell’ibridazione, in esso, di modelli locali e sovranazionali, individuali e collettivi, e della dialettica esistente tra le strategie di marketing poste in essere dalle aziende e gli atteggiamenti degli individui che le interpretano e a loro volta le orientano”.
Ma anche volendo assumere in qualche modo il punto di vista di Colafranceschi che fa riferimento alla specificità italiana dell’esperienza autogrill/Autogrill, è indubbio che siamo di fronte a una modificazione profonda dei modelli culturali e dei valori che ci hanno guidato per anni e che, oggi, non può dirsi siano migliorati, anzi. Siamo a un vero e proprio regresso. Ed è indubbia la responsabilità della civiltà del consumo e dei suoi luoghi di elezione che incorporano e metabolizzano anche le forme tradizionali dell’espressione culturale più popolare: la musica ed il cinema. Imponendo il “gusto” attraverso un meccanismo distributivo mirato. Non si spiegherebbe altrimenti come alcuni film, peraltro pluripremiati, non entrano proprio nelle nostre sale cinematografiche.
A questo si aggiunge la crisi delle vecchie agenzie formative: famiglia, scuola, oratori. Ma gli stessi movimenti culturali, o gli stessi vecchi partiti non sono riusciti e non riescono a coinvolgere, a formare, a dare una visione altra della realtà e a costruire corretti modelli culturali. Ma potrebbero oggi reggere il confronto e contrastare la potenza dell’”ideologia del consumo”? E forse, queste agenzie non sono in crisi proprio per l’effetto indotto di questa “ideologia”?

Auto-organizzarsi/re altre forme culturali
Di fronte ad una tale lenta ma al tempo stessa profonda modificazione della nostra società c’è chi mette in campo gli spazi e i luoghi della “resistenza” e di un’altra cultura possibile. Un modo per auto-organizzarsi/re nuove forme culturali, che respinge con forza i modelli imposti, ma anche il costo esagerato della stessa fruizione culturale.
E’ il caso del Centro sociale “Laboratorio Millepiani” che, partendo da una vertenza con le autorità locali per usufruire gratuitamente di spazi pubblici e di contrasto alla privatizzazione di tutto il patrimonio pubblico, ha sviluppato una intensa attività di controcultura. L’ultima iniziativa nata è “radiossina – voci e suoni dalla città di sotto” http://stream.teknusi.org:8000/radiossina.m3u oppure: http://stream.teknusi.org:8000/radiossina
Vinta la battaglia per avere in disponibilità un luogo pubblico, i giovani del Laboratorio hanno iniziato subito a sviluppare le loro iniziative autonome: rassegne cinematografiche, presentazione di libri che non entrano nei vari circuiti ufficiali, incontri con intellettuali/studiosi su temi di attualità, mostre d’arte e fare arte, battaglie sociali per il reddito di cittadinanza, per la smilitarizzazione di Caserta, per la riqualificazione a verde del Macrico (area di 330.000 mq oggetto di possibili speculazioni edilizie). Ma anche momenti ludici di divertimento con il baretto autogestito, le serate di musica, quelle di teatro o cabaret, con artisti che non trovi normalmente nei soliti circuiti. Tutto a costi di pura autogestione.
Fare cultura, scegliere e non subirla. Questo è il motto del Laboratorio Millepiani.
Ovviamente ci sono anche altre esperienze che non fanno riferimento necessariamente alla rete dei centri sociali, evidentemente molto caratterizzati politicamente. Ci sono gruppi che fanno riferimento all’impegno sociale come l’ex Canapificio (migranti), alla solidarietà pura come La Tenda (di forte ispirazione religiosa), a gruppi di studio e di approfondimento come Epimeteo di Napoli.
E chissà quanti altri che non conosciamo e sono vere e proprie fucine di altra cultura che non intende subire quanto la società dei consumi propina quotidianamente attraverso televisione, cinema, e, adesso in particolare, attraverso i mega centri commerciali omnicomprensivi che divorano tutto.
P.S.
Una sola volta sono andato al cinema in una multisala/multiplex annessa ad un centro commerciale. Ho odiato vivamente la puzza di popcorn bruciato che assale le narici. Forse perché amavo molto le “gazzose” (in bottigliette di vetro) che bevevo avendo per cannuccia il “laccio di liquirizia”.
Enzo Falco

Per un futuro sostenibile

E’ sotto gli occhi di tutti la stortura di uno sviluppo economico che si è voluto misurare solo ed esclusivamente con il reddito prodotto (PIL):1. le auto occupano gli spazi della città e hanno reso la nostra aria irrespirabile;2. le risorse idriche ed energetiche, con il ritmo di consumo che abbiamo, che peraltro riguarda solo una parte del mondo, sono destinate a finire;3. i rifiuti, al di là dei problemi di smaltimento che abbiamo già oggi, sono destinati a crescere vertiginosamente; stiamo facendo la fine della città di Leonia mirabilmente descritta da Italo Calvino;4. negli ultimi 50 anni abbiamo perso circa 300 mila specie vegetali perdendo un patrimonio di biodiversità enorme e straordinario;5. tutto questo riguarda, in particolare, una piccola parte del mondo mentre il resto vive nella più profonda delle povertà.Che razza di mondo abbiamo costruito? Soprattutto se a fronte di questi aspetti negativi tutti, nessuno escluso, parlano solo ed esclusivamente di una maggiore “qualità della vita”.Eppure già Antonio Genovesi nel XVIII secolo, da Napoli, parlava di economia civile e del fatto che l’aumento oltre una certa soglia del reddito pro-capite non aumenta la felicità, né la “qualità della vita”.Analizziamo quanto sta succedendo:a. la capacità produttiva aumenta sempre di più;b. non aumenta invece il numero di compratori perché la ricchezza si concentra nelle mani di pochi;c. se il mercato non si espande numericamente e geograficamente è chiaro che deve accelerare temporalmente.Questo avviene attraverso due meccanismi:d. l’innovazione continua dei prodotti che rende rapidamente obsoleti quelli “vecchi”;e. cambia la scala dei valori: l’oggetto non ha più un “valore d’uso” ma è funzionale all’apparire e assume un “valore simbolico” quindi destinato velocemente ad invecchiare.Se queste sono le storture del nostro modello di sviluppo che ci da ricchezza (a pochi per la verità) e non “qualità della vita/felicità” è ovvio che bisogna pensare ad un modello di sviluppo diverso.Per dirla con Pasolini dovremmo puntare al progresso più che allo sviluppo ed in ogni caso ad uno sviluppo che non abbia come parametro di valutazione solo la ricchezza prodotta (PIL).Dobbiamo promuovere la crescita di una economia parallela incentrata sul “valore d’uso”; promuovere le attività che producono tasselli di qualità della vita anziché merci destinate al solo consumo:- manutenzione urbana, cura del territorio;- educazione/istruzione;- industria della cultura/cultura autoprodotta/spazi di aggregazione e di cratività;- riscoperta e valorizzazione intelligente, utilizzando in positivo le nuove tecnologie, dei saperi tradizionali;
-agricoltura biologica e di qualità;- trasporti e mobilità ecocompatibile;- aumento delle zone pedonalizzate;- uso di bici e auto ecologiche.Tutto questo è possibile se si riesce a comporre preventivamente gli interessi dei soggetti sociali, economici e produttivi che, di norma, configgono per poi ricomporsi solo a valle di una dura competizione.E’ ovvio che per determinare questa composizione preventiva bisogna attivare i meccanismi di partecipazione attiva e costruttiva non solo del mondo dell’offerta mossa dal motore del profitto, ma anche e soprattutto dei cittadini, singoli o associati.Tutto questo si chiama sviluppo sostenibile.Ma favorire la partecipazione dei cittadini e delle rappresentanze presenti nel “Forum della Sostenibilità” per la definizione e condivisione degli obiettivi e nell’individuazione delle azioni prioritarie da attivare, non significa dare vita a forme assembleari inconcludenti. Esistono ormai veri e propri metodi favoriti da esperti facilitatori. Uno dei più utilizzati è l’EASW. Si parte da un possibile scenario immaginato e si costruisce, attraverso incontri successivi, sulla base degli elementi conoscitivi acquisiti nelle fasi precedenti, un Piano di Azione Locale, che sarà lo strumento di conoscenza e di attuazione per i decisori politici, ma che vincola responsabilizzandoli tutti gli attori che hanno partecipato alla sua stesura.Insomma, con la partecipazione attiva di tutti, si creeranno quelli che sono stati definiti gli “Atelier del futuro”; veri e propri laboratori “artigianali” di idee per un futuro migliore, se possibile per noi stessi, ma soprattutto per le future generazioni.
Enzo Falco